First Lady vs First Gentleman

È successo di nuovo: una donna sale al potere e il compagno, invece di fare il first gentleman, urla, si scapiglia e fa di tutto per far vergognare la moglie.

È successo alla Regina Elisabetta, adesso succede alla Meloni, nel mezzo ci sono molteplici esempi.

L’uomo proprio non lo accetta di stare in silenzio e fare il supporter.

Proprio non ce la fa. Non sono gli asili il problema delle donne in carriera, sono i mariti, così egoriferiti, così poco inclini allo stare a guardare e supportare.

Oggi vorrei abbracciare Giorgia Meloni e dirle che lo so che succede di innamorarsi di idioti o di lupi, perché non stiamo bene con noi stesse o perché in quel momento avevamo bisogno di quello per chissà quale stortura interiore, ma poi, quando su noi stesse lavoriamo, quella persona la vediamo per quello che è, nonostante tutti ce lo dicessero da sempre, solo una mattina ci svegliamo e ci rendiamo acconto che è un cretino.

Così de botto.

È successo a tutte Giorgia tranquilla, passa.

Vorrei dire questo a Giorgia Meloni, ma se fossi sua amica lo sarei fino in fondo e le direi anche che bisogna smettere di giudicare le situazioni che non possiamo conoscere. Che questa politica basata sull’odio prima o dopo si ritorce contro anche a lei, perché l’odio è sempre un errore, se protratto.

Vorrei dire a Giorgia Meloni che la vita semplicemente succede, che non è impedire o forzare a poter cambiare le cose. La scelta cambia la gente. Scegliere. E una buona politica è informare e far scegliere.

La abbreccerei Giorgia e subito dopo le tirerei un nocchino. Entrambi con lo stesso affetto.

Vorrei tanto che questa storia facesse capire alla prima donna Presidente del Consiglio di dare una sferzata ed essere almeno possibilista verso una apertura mentale, verso l’inclusione e verso temi bellissimi paradossalmente realmente cattolici (che poi manco loro li mettano in pratica è un altro discorso).

Sarebbe bellissimo se l’esperienza cambiasse davvero la mentalità e da domani Giorgia Meloni diventasse il primo Presidente donna a lottare non solo per le donne ma per tutte le minoranze.

A quel punto, sarebbe davvero superfluo farsi chiamare Presidente o Presidentessa, no?

Giornate così

Bisogna saperle portare in fondo, giornate come queste.

Giornate come queste, sono giornate che spezzano il cuore, tritano l’anima, attentano la ragione.

Bisogna avere un po’ di brutte esperienze sulle spalle per uscirne vivi, da giornate come queste. Perché quello che fa male, sempre, sono i ricordi, sono gli anniversari, precisi e puntuali come sentenze di un mostro nascosto nelle pieghe del nostro cuore.

Giornate come queste sono giornate cattive, laide, vigliacche.

Ma saperle portare in fondo senza creare danni, senza violenze, senza litigi, sforzandosi di non massacrare chiunque ti rivolga la parola è quasi una cosa da eroina, da Natasha Romanoff, da Madre Teresa, da Lady Oscar.

La giornata è finita. È già domani. L’ho sfangata.

Un bacio alla mia mamma, ho ancora la sua pelle stampata sulla mia.

Il mio amore bellissimo

Lo vidi e mi innamorai. Lui era piccolo e con lo sguardo già incazzato nero. Com’ero io del resto in quel periodo. Avevo 26 anni, avevo perso mio padre e intorno non avevo nessuno. Un periodo di grande cambiamento, dove tutto intorno a me era in macerie: decisi di ricostruirmi da Lui, dal mio cane.

E Lui lo sentì, eccome se lo sentì. Lui, con quel culino ritto, quella faccia da Mazinga Z non mi lasciava un secondo, ma lo faceva con rispetto, con la distanza giusta, con indipendenza. Non pianse mai, nemmeno la prima notte. Era un tipo tosto, Lui.

Iniziammo così la nostra avventura, la nostra strada, il nostro amore. Lui era il mio cane, il mio fedele amico, che con uno sguardo capiva cosa fare, capiva come stavo e ugualmente io capivo Lui. Una simbiosi perfetta. Dormivamo abbracciati, facevamo il bagno in mare, andavamo a fare colazione.

Lo portai in un’area sgambatura, che presto diventò un punto di riferimento per me, con persone nuove che mi sollevavano dal mio lutto; imparavo a capire come parlare con Lui, guardandolo con gli altri cani. Ma a Lui, degli altri cani, non è mai importato. Lui avevo la sua pallina e me. Del resto non gli importava. Trovai lavoro in un negozio per animali grazie a Lui. Iniziai a stare meglio e la nostra casa iniziò a riempirsi di affetti nuovi. Si creò una famiglia di amici, miei e suoi, la nostra vita si iniziò a riempire naturalmente.

Appena mi mettevo sul divano lui si adagiava su di me e guardavamo la tv. Gli anni trascorrevano, quando ero triste lo abbracciavo, Lui appoggiava la testa sul mio collo e stava lì. Quando era felice lo coccolavo sul letto e faceva dei rumori strani che solo Lui sapeva fare.

Russava fortissimo. Spesso alzavo il volume della televisione da quanto russava!

Piano piano però, ci fu un altro rumore che iniziò a preoccuprmi. Il suo cuore. Batteva forte, batteva sonoramente. Il cardiologo disse che doveva iniziare una cura. Mattina e sera prendeva la sua pasticca ed era Lui, spesso, a ricordarmela. Il suo cuore era così pieno d’amore per tutti che iniziava a gonfiarsi. Andammo avanti comunque nella nostra splendida avventura per un bel po’.

Poi d’estate la mia mamma (che abitava lontano) si aggravò fino a spegnersi. Nelle sere di sconforto lo abbracciavo forte e nelle notti pensierose ascoltavo il suo cuore battere, mentre mi dormiva accanto, perché a questo punto faceva fatica a dormirmi addosso, aveva bisogno di aria, spesso si sentiva soffocare. L’amore nel suo cuore continuava a crescere e insieme le pillole da prendere. Tre volte al giorno. Smise di appoggiarsi su di me sul divano. Ci provava ogni volta, ma ogni volta erano colpi di tosse.

Fino a quella sera di dicembre, dove non riuscì più a sdraiarsi. Mi chiamò con la zampa tutta la notte. Non sapevo come aiutarlo, beffa di una vita passata ad aiutare me. Voleva dormire, ma non riusciva a sdraiarsi.

La mattina andammo dalla sua veterinaria, per aiutarlo, c’era solo una grande e dolorosa decisione da prendere. E lo feci. Si addormentò con il muso nella mia mano. Il suo cuore smise di fare rumore e il silenzio fu assordante.

Non lo rivedrò mai più. E questa cosa è difficile da gestire, perché quando mi sentivo così triste, era Lui che abbracciavo.

Ringrazio ogni giorno e ogni istante passati con Lui. Ringrazio l’amore che mi ha insegnato. Ringrazio anche il lockdown, per avermi dato così tanto tempo da passare con insieme.

Lui era il mio Poldo.

Il mio amore bellissimo.

Ottobre 20

Settembre con i suoi caotici venti, la sua mano severa, ma giusta, il dolore negli occhi, mi fissa in un silenzioso saluto. Indossa il borsalino per lasciare spazio al mio adorato Ottobre. Sicuramente arriverà, a momenti. Lo so per via del colore della montagna, che piano piano si tinge di autunno. E io lo aspetto, mi sistemo davanti allo specchio, con la mano liscio i capelli, l’abito a fiori pulito e profumato, provo il mio sorriso migliore. D’improvviso il campanello, non lascio staccare il dito dal bottone che già ho aperto la porta, come una ragazzina innamorata aspetta il ragazzino dei suoi sogni. Ottobre è lì, con il suo meraviglioso sorriso, la giacca marrone, l’adorabile maglione rosso e una sciarpina gialla, che tira vento. Ottobre è lì e io lo abbraccio. Lo abbraccio forte. Lui mi stringe, mi guarda negli occhi “ho un sacco di regali, per il tuo compleanno, ci penso io a te. Adesso riposa, che è stata tosta, questa estate.” e mi abbraccia nuovamente, facendomi fare una piroetta, con quel sorriso sornione che adoro.
Oh, si. Ottobre, tu sei proprio il mio mese preferito: non deludermi, ti prego.

OUT IS ME una normale storia atipica

Oggi è una giornata di luglio fresca e piovosa. Ed è da tutta la mattina che non riesco a togliermi di dosso lo spettacolo teatrale che ho visto ieri sera.
Con grande coraggio la produzione di Casazoo mette in scena lo spettacolo scritto da Lorenzo Clemente, Francesco Gori e Yuri Tuci (anche unico interprete), con l’intento di raccontare una storia in due atti, sulla vita di Yuri.

Yuri Tuci rappresenta la sua vita sul palco, una vita atipica. Sì, perché Yuri Tuci è autistico, ad alto funzionamento, come ci spiega nel suo monologo, ricco di ironia, sarcasmo e informazioni. Non è mai facile mettersi a nudo, ancora più difficile farlo su un palco. Ma Yuri lo fa, racconta il suo rapporto con l’autismo, ci rende partecipi delle difficoltà che ha affrontato, delle fobie, dell’autolesionismo, del disturbo ossessivo compulsivo. Lo fa facendoci ridere, con una risata amara, accompagnata da un nodo in gola e a volte una lacrima, per quanto mi riguarda.
Ci racconta della sessualità, dell’amore, degli psicofarmaci, della solitudine.
Tra una battuta e l’altra ci parla di come i suoi genitori abbiano saputo essere lì, per lui.
Quando si arriva ai ringraziamenti finali e agli applausi che scrosciano lunghi e intensi, i tre autori ci chiedono soltanto una cosa: di raccontare a più persone possibili dell’esistenza di questo spettacolo, che si autofinanzia dal merchandising, che va in giro in tutta Italia con orgoglio, perché il progetto è bello, è interessante ed è divertente.

Per cui, quando nelle vostre città troverete la locandina o l’evento su facebook di Out Is Me, fatevi questo regalo e andate: “Perché c’è un conflitto in ogni cuore umano tra il razionale e l’irrazionale… però non sempre il razionale trionfa. A volte le cattive tentazioni hanno la meglio su quelli che sono i migliori angeli della nostra indole, i buoni istinti morali. Ogni uomo ha un punto di rottura. Alcuni sono più fragili, altri meno.”
Lasciatevi toccare, lasciatevi coinvolgere da questa straordinaria storia atipica.

Immersa

Passeggiavo dentro al bosco, in una bella giornata di fine febbraio, che profuma di primavera. Ero immersa nella mia musica, nei miei pensieri, nelle mie sconfitte e nei miei successi. Era una giornata di quelle che fai i conti personali, di quelle dove fai i bilanci. Ricercavo momenti felici, ricercavo nella memoria quegli istanti per cui vale la pena vivere. Li pesavo, insieme a quelli terribili, a quelli di sconforto. E camminavo, tra il sole che abbronzava il mio viso e gli alberi che germogliavano. Sentivo il calore del sole, così assente negli ultimi tempi. Mi mancava.

Dopo diversi chilometri, diversi pensieri scartabellati nelle fila principali della mia mente aggrovigliata, sulla strada del ritorno incontro un ragazzo, un bel tipo che correva. La strada era dritta per un po’ per cui ho potuto fare caso al suo cane accanto, un lupoide felice con in bocca un bastoncino, che correva vicino al suo amico. Mi sono accorta di stare sorridendo, quando quasi incrociati, il ragazzo mi guarda, ricambia per un attimo il mio sorriso e abbassa subito lo sguardo al suo cane. A quel punto, il sorriso gli si spalanca. Ho potuto vedere in un attimo la loro amicizia, la loro gioia di correre insieme, l’orgoglio del ragazzo verso il suo amico, così allo stesso passo, così attento a non fare un galoppo in più. Erano insieme. Erano amici. Avrei fatto di tutto per immortalare quello sguardo, quella gioia, quell’amore. Erano così solidi e belli.

L’attimo è passato, ci siamo incrociati, ho sorriso ancora di più. Ho guardato il cielo, così azzurro. Il fiume, così brillante.

Non li vedrò mai più, il ragazzo e il suo cane, ma di sicuro resteranno nella mia storia, nella mia memoria come un momento di quelli belli.

A volte basta così poco per stare bene.

Maschere

Un sorriso che fa cadere immantinente la maschera costruita per nascondere le cicatrici. Sensazione di libertà in quella curva, vispa, dolce e curiosa. Due occhi che ridono, perché interessati a quelle cicatrici non alla maschera ben fatta per celarle.

Occhi verdi che ti guardano e vanno a scrutare l’orizzonte dei pensieri, vanno a leggere il ricciolo di quel sorriso, accarezzare il cuore facendogli il solletico per poi tornare, occhi negli occhi.

Sorriso leggero che si perde, passeggiando soli in mezzo alla gente, per assaporare un po’di più quell’intimità che non è per tutti.

Senza nemmeno sapere il perché, senza che importi realmente un perché, cercano scuse per passeggiare insieme.

Occhi verdi che ti guardano, sempre sorridenti, leggeri e sempre curiosi, regalano sensazioni sospese, incomprese, gentili.

Occhi verdi che ti guardano e vanno troppo in fondo. Dove per te, troppo non è mai abbastanza.

L’ onda

Ho attraversato periodi difficili nella mia vita, periodi che mi hanno portato lontano, che mi hanno portata qui, ad essere la donna che sono. Credo di essere stata abbastanza brava nel riuscire a non perdermi d’animo davanti alle intemperie della vita, ma ancor di più a non perdere mai di vista me stessa. Ho lavorato molto su di me, sempre, in ogni occasione, per tentare di essere la donna che avrei voluto.

Ho fatto molta strada, eppure adesso mi sembra di essere tornata al punto di partenza. Mi sono scervellata su questa cosa, presa dal panico del non aver imparato nulla. Poi ho guardato la mia vita in maniera macroscopica e ho capito che molte cose che ho voluto imparare, molti atteggiamenti di me stessa sono effettivamente cambiati, altri invece ancora no. Ho capito di essere un’onda.

Ecco. Io sono un’onda. Sono nata in mezzo al mare, strada ne ho fatta molta, spinta dalla volontà di migliorarmi. Mi sono infranta sulla sabbia, sono arrivata lontana. Ma poi: la risacca. Non sono tornata al punto di partenza, semplicemente delle cose le ho interiorizzate (la strada sull’acqua) altre invece le ho capite senza farle mie (la strada sulla sabbia e il ritorno al mare).

Presto sarò di nuovo onda che nasce nel mare. Imparerò ancora. Migliorerò ancora.

Sperando un giorno di diventare un mare estivo, calmo, caldo e rilassato.

La mini me

Scrollavo annoiata instagram, quando vedo la foto di una mia amica con una bambolina che la raffigurava precisamente e nei dettagli. La contatto subito. Mi dice che si tratta della “mini-me” e di contattare Giuliana nel caso ne volessi una.

A breve sarebbe stato il compleanno della mia migliore amica. La mia migliore amica ha due soprannomi:

Bambolina

Mini-me

Avrei sbancato tutto con il migliore dei regali al mondo.

Contatto senza indugi Giuliana via whatsApp, all’inizio molto fredda. Era subito dopo Natale, quante ne avrà avuti di contatti finiti nel silenzio? Quando capisce che davvero sono intenzionata ad avere la Mini-me si scioglie. Inizia a riempirmi di domande su di me sulla mia amica, come se ci dovesse mettere l’anima in quella rappresentazione, inizia a chiedermi le foto per la riproduzione. Giorno dopo giorno mi scrive, per farmi vedere i progressi e iniziamo a chattare come due vecchie amiche. E poi dice una frase bellissima. Poi dice “La cosa che mi piace di più (a parte fare le Mini-Me) è conoscervi. Studiando a fondo le foto mi sembra di conoscervi da sempre”.

E lì, Giuliana mi conquista definitivamente, inizio ad immaginarla tra le righe che mi racconta di sè, perché Giuliana ormai, è come se mi conoscesse. Immagino lei, il foglio primogenito adolescente, e il secondo che ancora se lo gode in fase preadolescenziale, il marito. La immagino mamma, la immagino moglie, la immagino inventarsi un lavoro perché “sono una donna e ho un dono, saper usare le mani” e Giuliana lo fa. Lo fa con il cuore. La immagino costruire la Mini-me per la mia migliore amica, guardandola con un po’ di dolore, perché ha subito una perdita e il suo dolore ha attraversato una chat, ha attraversato 1400 km e mi ha invasa. L’avrei abbracciata Giuliana. Perché Giuliana ci mette se stessa nelle sue creazioni. Quello che crea non è una bambola, ma coglie l’essenza di ognuno di noi e lo trasforma in un mini noi, così carini e così simili. E questo può farlo grazie alla sua grande empatia.

Nel caso in cui vogliate ritrovarvi bamboline o bambolini, ricordatevi che Giuliana esiste, si trova nel suo “piccolo angolo di lavoro” per regalarvi un grande sorriso.

L’importanza di chiamarsi Elfo

Ci conoscevamo da molto tempo, ci trovammo vicini nel dolore, ci piacemmo. Era un uomo diverso, mi supportava. Mi aiutava. Era gentile. Mi baciò una sera d’autunno, dopo avermi salvata da una nottata di quelle hard core.

Ci andava piano, Lui, pianissimo, come me, che rifiutavo ogni idea di relazione. Non sbagliò nulla. Né una parola, né un gesto. Scalfì il mio scudo. Scherzavo sul fatto di essere un piano B. Sapevo che non era il momento per nessuno dei due di essere un piano A, ma il piano B era un buon compromesso. Mi dava il suo coltello se il mio non tagliava, senza che lo chiedessi. Mi telefonava, solo per sapere come andava la giornata. Bevevamo vino e ridevamo. Mi ascoltava e mi ammoniva: “basta con i disagiati, abbiamo detto basta. Abbiamo detto che meritiamo di più”. Gli credetti. E nell’istante in cui lo feci sparì.

Non si videro mai più, perché lo presi davvero in parola. “Basta con i disagiati”.