Il 30 marzo

Il 30 marzo del 2011 era una splendida giornata di sole. Era primavera inoltratrata, si azzardavano le maniche corte.  Il sole scaldava le ossa, infreddolite dall’inverno. Io quel giorno ero nel Chianti, a godere delle colline, di lì a due giorni sarei partita per Barcellona, avevo 25 anni, un idiota che mi regalava qualche soddisfazione, un buon lavoro e progetti di vita spensierati e colorati.

Era una giornata perfetta, canticchiavo le canzoni del concerto visto due giorni prima, Caparezza. Mi sentivo così bene, così invincibile. Nel mio petto entrava vita, aria, energia e mi pervadeva ovunque.

Ero nel Chianti per un lavoro, con il mio collega, più amico che collega, che guidava in queste strade piene di verde. Il mio telefono squillò. La moglie norvegese di mio padre dagli Emirati Arabi con furore. Non gli rispondo, che le devo dire? Aspetta, se mi chiama magari è importante, perchè non mi ha chiamato mio padre?

“Hello?!”

“I’m Kristine, I’m in hospital, your father.. he suffered a cerebral hemorrhage”

“Che?”

“Come here. Hurry up”

Riattaccai il telefono. Iniziai a ridere istericamente. Il mio collega fermò la macchina, mi chiese se andasse tutto bene. Dissi di sì, provai a scendere. Non ci riuscii. Non andava tutto bene. Partii il giorno stesso per gli Emirati Arabi. Due giorni dopo, la notte fra il 1° e il 2 aprile, mio padre morì.

In un solo attimo, la mia vita cambiò. Fu un secondo. Il tempo di una telefonata con non più di quindici parole. Ho vissuto ovattata, ho vissuto momenti di isteria, di calma terribile, momenti di isolamento e momenti di rabbia. In un secondo solamente ho capito quanto tentare di vivere controllando le situazioni sia del tutto una perdita di tempo, di come le cose che reputiamo importanti in realtà non lo sono poi così tanto. E di come lo diventano cose che pensiamo possano succedere solo nei film. Diventai adulta nel giro di una manciata di parole, diventai grande tutta insieme. Forse fu la mia fortuna. Forse no. Ho imparato a lasciar fluire gli eventi e a reagire ad essi. A plasmarmi sulle cose, anzichè tentare di plasmarle io. A volte inciampo ancora, ma tiro sempre su la testa, anche grazie ad una squadra di persone costruita negli ultimi sei anni.

Però su tutte c’è una cosa che ho imparato e che ho cercato di fare mia: che le cose accadono ed è VITA anche la parte scomoda di questo viaggio pieno di salite faticose e impervie e discese allegre e spensierate.

Sentenze

Oggi è la festa del papà. “Mi sono scordata, scusami, lo sai che non sto dietro a queste festività.”
“Non preoccuparti filliola” così mi chiamava, filliola “ti prendo in giro”.
Dopo 14 giorni mio padre è morto. Sono sei anni, adesso, che la festa del papà è una sentenza, non un giorno, non una cosa a cui non badare, che passa come una brezza sciocca e leggera. É una mancanza, un pizzicotto, che qualsiasi cosa io stia facendo, ad un certo punto stringe. E fa male. A volte di più, a volte di meno. Eppure non faccio caso a queste feste. Sono feste nate per il commercio e per chi, come me, ha un motivo per sentire la mancanza.
Non la sentiamo sempre, la sentiamo a volte, quando siamo in difficoltà o particolarmente felici. E per queste cazzo di feste comandate. Grazie Marketing, grazie davvero.
Marzo comincia con gli sms delle varie profumerie piene di sconti per il tuo papà, con pubblicità in tv che propongono regali per il tuo papá e cartelloni di offerte in città, sempre per il tuo papà.
Entri lentamente in questo miglio verde, giorno dopo giorno. Fino alla sentenza. Oggi.

D I C I A N N O V E M A R Z O

Mai come quando non puoi più festeggiare una cosa, anche la più cretina, ti rendi conto di quanto ogni occasione sia stata persa, di quanto basti così poco, fare una telefonata o dare un abbraccio, per far sentire quella persona felice. Peró sei una ragazzina, vai controcorrente e sei sovversiva, no, io queste feste non le festeggio. Beh ecco, si, lo credo ancora che siano feste idiote, ma non c’è anno in cui io non vada sulla foto profilo di mio padre, che mise proprio oggi sei anni fa, a lasciare un commento. Noi due, io bimbetta sulle sue spalle, lui capellone anni 80. “Foto da festa del papà”, scrisse.

Brava testona, ogni occasione è persa, ahimè non lo rividi mai più.

Flash tutto sommato è un supereroe

Avevo appena 25 anni, ho sempre avuto l’attitutidine ai toy boy, infatti, quella sera dovevo vedere un 22enne. Non ero granchè convinta, anche perchè per raggiungere l’oggetto del mio desiderio (?!?) dovevo fare più di quaranta minuti di macchina. Mi faceva profondamente fatica, ma poi, non poteva venire lui? Ma siccome era un periodo di magra sessuale, pensai di non essere nella posizione di tirarmela. Pensai che alla fine un po’ di sana salsiccia non mi avrebbe fatto male. Per cui mi misi in auto, con l’idea di tornare presto.
Lui non era questo granchè, ma da una rapida liaison, lasciata a metà tempo addietro, sapevo che era ben messo, che poi era l’unico motivo per cui avrei affrontato quei quaranta minuti di auto e musica di mercoledì.
Arrivai nel parcheggio dell’appuntamento alle 21 spaccate, mi infilai nella sua scomodissima auto e come un gatto mi zompò addosso. “niente male, proprio niente male” pensai durante i preliminari spinti, “ci siamo, mi levo qualche soddisfazione, sisi, bravo proprio così. Oh ci siamo” entrò dentro di me, con una gran bella soddisfazione iniziai a lasciarmi andare, iniziai ad ascoltare il mio corpo, che, in festa, stava cominciando a divertirsi sul serio.

“AH.OTTIMO -.-”

Dunque:è vero che volevo tornare presto, ma così era decisamente troppo presto. Due minuti. Due. La durata dell’atto sessuale fu più breve di una canzone di Tenco.
Iniziò a scusarsi, a dire che non sapeva proprio come poteva essere successo -certo, come no- che gli dispiaceva -beh, almeno datti da fare diversamente- quando squillò il suo telefono. Sua madre. “non allarmarti tesoro” iniziai a tirare su gli slip “siamo al pronto soccorso perchè tuo padre urina sangue” iniziai ad allacciare i pantaloni “cerca di venire, ma vedrai non sarà grave” scossi i capelli e misi il rossetto.
“Sarà il caso che tu vada. Io torno verso casa, oh, fammi sapere eh, ma vedrai che saranno calcoli ai reni”.
“E se è un tumore?”
“Ma no, stai tranquillo.”
Scesi dall’auto. Rimontai sulla mia. Accesi la radio. Quaranta minuti dopo ero a casa. Imprecai. Andai a letto.

Erano calcoli ai reni.
Non lo vidi mai più.

Marzo

Febbraio è bene che faccia le valigie e le faccia presto. Come un ladro ha rubato molto, in soli ventotto giorni. È riuscito a prendersi progetti, lavori, persone, la mia barba preferita, persino la mia gatta. No. No Febbraio, non mi mancherai. Non ti guarderò andare via con il coltello sporco del mio sangue, mi siederò e aspetterò il rumore della porta che sbatte, senza nemmeno un ciao.

Marzo profuma di frittelle, ha la sciarpa a righe colorata, il borsalino e si siede vicino a me, strusciando il naso sulla mia guancia. Ma io sono arrabbiata e non ho voglia di smancerie. Marzo mi mette una mano sugli occhi e quando la toglie siamo in cima ad un dirupo, con il paracadute sulle spalle. Ho paura e sono stanca di emozioni così nevrotiche.
“Stai tranquilla biondina, non devi saltare per forza, ma nel caso ti annoiassi, sai come fare.”
Guardo il panorama mozzafiato, da quassù è bellissimo. Guardo Marzo, con i suoi occhi scuri sorridere e lanciarsi cadere all’indietro, nel vuoto. Io invece rimango qua, sul ciglio, a godere il sole, a guardare l’infinito. Respiro profondamente per fare entrare tutto quel verde e quel cielo nei polmoni.
Respiro profondamente. Ancora. Ancora. Ancora. E ancora.