Il mio amore bellissimo

Lo vidi e mi innamorai. Lui era piccolo e con lo sguardo già incazzato nero. Com’ero io del resto in quel periodo. Avevo 26 anni, avevo perso mio padre e intorno non avevo nessuno. Un periodo di grande cambiamento, dove tutto intorno a me era in macerie: decisi di ricostruirmi da Lui, dal mio cane.

E Lui lo sentì, eccome se lo sentì. Lui, con quel culino ritto, quella faccia da Mazinga Z non mi lasciava un secondo, ma lo faceva con rispetto, con la distanza giusta, con indipendenza. Non pianse mai, nemmeno la prima notte. Era un tipo tosto, Lui.

Iniziammo così la nostra avventura, la nostra strada, il nostro amore. Lui era il mio cane, il mio fedele amico, che con uno sguardo capiva cosa fare, capiva come stavo e ugualmente io capivo Lui. Una simbiosi perfetta. Dormivamo abbracciati, facevamo il bagno in mare, andavamo a fare colazione.

Lo portai in un’area sgambatura, che presto diventò un punto di riferimento per me, con persone nuove che mi sollevavano dal mio lutto; imparavo a capire come parlare con Lui, guardandolo con gli altri cani. Ma a Lui, degli altri cani, non è mai importato. Lui avevo la sua pallina e me. Del resto non gli importava. Trovai lavoro in un negozio per animali grazie a Lui. Iniziai a stare meglio e la nostra casa iniziò a riempirsi di affetti nuovi. Si creò una famiglia di amici, miei e suoi, la nostra vita si iniziò a riempire naturalmente.

Appena mi mettevo sul divano lui si adagiava su di me e guardavamo la tv. Gli anni trascorrevano, quando ero triste lo abbracciavo, Lui appoggiava la testa sul mio collo e stava lì. Quando era felice lo coccolavo sul letto e faceva dei rumori strani che solo Lui sapeva fare.

Russava fortissimo. Spesso alzavo il volume della televisione da quanto russava!

Piano piano però, ci fu un altro rumore che iniziò a preoccuprmi. Il suo cuore. Batteva forte, batteva sonoramente. Il cardiologo disse che doveva iniziare una cura. Mattina e sera prendeva la sua pasticca ed era Lui, spesso, a ricordarmela. Il suo cuore era così pieno d’amore per tutti che iniziava a gonfiarsi. Andammo avanti comunque nella nostra splendida avventura per un bel po’.

Poi d’estate la mia mamma (che abitava lontano) si aggravò fino a spegnersi. Nelle sere di sconforto lo abbracciavo forte e nelle notti pensierose ascoltavo il suo cuore battere, mentre mi dormiva accanto, perché a questo punto faceva fatica a dormirmi addosso, aveva bisogno di aria, spesso si sentiva soffocare. L’amore nel suo cuore continuava a crescere e insieme le pillole da prendere. Tre volte al giorno. Smise di appoggiarsi su di me sul divano. Ci provava ogni volta, ma ogni volta erano colpi di tosse.

Fino a quella sera di dicembre, dove non riuscì più a sdraiarsi. Mi chiamò con la zampa tutta la notte. Non sapevo come aiutarlo, beffa di una vita passata ad aiutare me. Voleva dormire, ma non riusciva a sdraiarsi.

La mattina andammo dalla sua veterinaria, per aiutarlo, c’era solo una grande e dolorosa decisione da prendere. E lo feci. Si addormentò con il muso nella mia mano. Il suo cuore smise di fare rumore e il silenzio fu assordante.

Non lo rivedrò mai più. E questa cosa è difficile da gestire, perché quando mi sentivo così triste, era Lui che abbracciavo.

Ringrazio ogni giorno e ogni istante passati con Lui. Ringrazio l’amore che mi ha insegnato. Ringrazio anche il lockdown, per avermi dato così tanto tempo da passare con insieme.

Lui era il mio Poldo.

Il mio amore bellissimo.

Ottobre 20

Settembre con i suoi caotici venti, la sua mano severa, ma giusta, il dolore negli occhi, mi fissa in un silenzioso saluto. Indossa il borsalino per lasciare spazio al mio adorato Ottobre. Sicuramente arriverà, a momenti. Lo so per via del colore della montagna, che piano piano si tinge di autunno. E io lo aspetto, mi sistemo davanti allo specchio, con la mano liscio i capelli, l’abito a fiori pulito e profumato, provo il mio sorriso migliore. D’improvviso il campanello, non lascio staccare il dito dal bottone che già ho aperto la porta, come una ragazzina innamorata aspetta il ragazzino dei suoi sogni. Ottobre è lì, con il suo meraviglioso sorriso, la giacca marrone, l’adorabile maglione rosso e una sciarpina gialla, che tira vento. Ottobre è lì e io lo abbraccio. Lo abbraccio forte. Lui mi stringe, mi guarda negli occhi “ho un sacco di regali, per il tuo compleanno, ci penso io a te. Adesso riposa, che è stata tosta, questa estate.” e mi abbraccia nuovamente, facendomi fare una piroetta, con quel sorriso sornione che adoro.
Oh, si. Ottobre, tu sei proprio il mio mese preferito: non deludermi, ti prego.

Immersa

Passeggiavo dentro al bosco, in una bella giornata di fine febbraio, che profuma di primavera. Ero immersa nella mia musica, nei miei pensieri, nelle mie sconfitte e nei miei successi. Era una giornata di quelle che fai i conti personali, di quelle dove fai i bilanci. Ricercavo momenti felici, ricercavo nella memoria quegli istanti per cui vale la pena vivere. Li pesavo, insieme a quelli terribili, a quelli di sconforto. E camminavo, tra il sole che abbronzava il mio viso e gli alberi che germogliavano. Sentivo il calore del sole, così assente negli ultimi tempi. Mi mancava.

Dopo diversi chilometri, diversi pensieri scartabellati nelle fila principali della mia mente aggrovigliata, sulla strada del ritorno incontro un ragazzo, un bel tipo che correva. La strada era dritta per un po’ per cui ho potuto fare caso al suo cane accanto, un lupoide felice con in bocca un bastoncino, che correva vicino al suo amico. Mi sono accorta di stare sorridendo, quando quasi incrociati, il ragazzo mi guarda, ricambia per un attimo il mio sorriso e abbassa subito lo sguardo al suo cane. A quel punto, il sorriso gli si spalanca. Ho potuto vedere in un attimo la loro amicizia, la loro gioia di correre insieme, l’orgoglio del ragazzo verso il suo amico, così allo stesso passo, così attento a non fare un galoppo in più. Erano insieme. Erano amici. Avrei fatto di tutto per immortalare quello sguardo, quella gioia, quell’amore. Erano così solidi e belli.

L’attimo è passato, ci siamo incrociati, ho sorriso ancora di più. Ho guardato il cielo, così azzurro. Il fiume, così brillante.

Non li vedrò mai più, il ragazzo e il suo cane, ma di sicuro resteranno nella mia storia, nella mia memoria come un momento di quelli belli.

A volte basta così poco per stare bene.

L’ onda

Ho attraversato periodi difficili nella mia vita, periodi che mi hanno portato lontano, che mi hanno portata qui, ad essere la donna che sono. Credo di essere stata abbastanza brava nel riuscire a non perdermi d’animo davanti alle intemperie della vita, ma ancor di più a non perdere mai di vista me stessa. Ho lavorato molto su di me, sempre, in ogni occasione, per tentare di essere la donna che avrei voluto.

Ho fatto molta strada, eppure adesso mi sembra di essere tornata al punto di partenza. Mi sono scervellata su questa cosa, presa dal panico del non aver imparato nulla. Poi ho guardato la mia vita in maniera macroscopica e ho capito che molte cose che ho voluto imparare, molti atteggiamenti di me stessa sono effettivamente cambiati, altri invece ancora no. Ho capito di essere un’onda.

Ecco. Io sono un’onda. Sono nata in mezzo al mare, strada ne ho fatta molta, spinta dalla volontà di migliorarmi. Mi sono infranta sulla sabbia, sono arrivata lontana. Ma poi: la risacca. Non sono tornata al punto di partenza, semplicemente delle cose le ho interiorizzate (la strada sull’acqua) altre invece le ho capite senza farle mie (la strada sulla sabbia e il ritorno al mare).

Presto sarò di nuovo onda che nasce nel mare. Imparerò ancora. Migliorerò ancora.

Sperando un giorno di diventare un mare estivo, calmo, caldo e rilassato.

L’importanza di chiamarsi Elfo

Ci conoscevamo da molto tempo, ci trovammo vicini nel dolore, ci piacemmo. Era un uomo diverso, mi supportava. Mi aiutava. Era gentile. Mi baciò una sera d’autunno, dopo avermi salvata da una nottata di quelle hard core.

Ci andava piano, Lui, pianissimo, come me, che rifiutavo ogni idea di relazione. Non sbagliò nulla. Né una parola, né un gesto. Scalfì il mio scudo. Scherzavo sul fatto di essere un piano B. Sapevo che non era il momento per nessuno dei due di essere un piano A, ma il piano B era un buon compromesso. Mi dava il suo coltello se il mio non tagliava, senza che lo chiedessi. Mi telefonava, solo per sapere come andava la giornata. Bevevamo vino e ridevamo. Mi ascoltava e mi ammoniva: “basta con i disagiati, abbiamo detto basta. Abbiamo detto che meritiamo di più”. Gli credetti. E nell’istante in cui lo feci sparì.

Non si videro mai più, perché lo presi davvero in parola. “Basta con i disagiati”.

Gli abitanti del mio cuore

Era il periodo natalizio, lavoravo in un negozio chic nel centro storico della mia città. Parcheggiavo lontano, fuori dalle mura, così da non spendere tutto quel che guadagnavo in parcheggio.

La passeggiata dalla macchina al negozio era piacevole, attraversavo una delle parti della città che preferivo.

Era un pomeriggio grigio, aveva nevicato nelle vicinanze, ma non in città. Il clima era freddo, il Natale si avvicinava, insieme al senso di solitudine che lo pervade.

Passando davanti al teatro, poco prima del mio arrivo, un ragazzo davanti a me lasciò la scia di quello che è il profumo forte e deciso di mio fratello (di diritto ma non di sangue, ora dall’altra parte dell’emisfero, impegnato nella sua carriera). Chiusi gli occhi e inspirai a pieni polmoni. Prese forma davanti a me mio fratello (di diritto ma non di sangue), con mia cognata camminanti mano nella mano. Li immaginai fermarsi e baciarsi, come nella foto che gli feci in vacanza a Venezia, che tengo sull’orologio tecnologico che una volta era suo e che ha dato a me come tutte le volte, quando ne compra uno nuovo; io lo uso non per necessità, ma per sentirlo più vicino.

Li immaginai felici vicini a me. Belli, splendenti. Li immaginai ridere nei loro cappotti.

Pochi passi più tardi, l’uomo dal profumo fraterno cambiò strada, rispetto alla mia. L’odore svanì, ma non l’immagine di casa, di cui avevo tanto bisogno in questo Natale che come un’ombra si stava avvicinando, portando luci e canzoni e regali per taluni, ma una punta di dolore e malinconia per altri.

Mi resi conto però di come a volte basti un profumo forte e deciso per curare le assenze di chi risiede di diritto nel proprio cuore e che il dolore e la malinconia erano sempre meno protagoniste dei miei dicembre.

Sorrisi, giunta a destinazione. Aprii la porta e accesi tutte le lucine e i carillon natalizi del negozio chic nel centro della mia città.

Qui e ora

Non avrei mai immaginato, da pocopiùcheventenne, che sarebbe stato tanto bello, dopo essere tornata a casa da lavoro, fare uno spaghetto aglio olio e peperoncino, pulire casa, mentre l’acqua aspetta di bollire, cenare, farsi una doccia, cospargersi di crema (la odiavo, la detestavo), prepararsi la tisana da sorseggiare a letto, davanti ad una serie tv. Il tutto entro le 23.

Le fasi della vita cambiano. Le priorità della vita sono così mutevoli ed inimmaginabili. Lasciarsi cullare da questo, nelle grandi ere che ci determinano è incantevole. Sapere chi siamo e in che fase siamo è difficile, ma se si riesce a fare, allora il qui e ora prende un significato trascendentale.

Oggi ci sono io. Oggi le coccole sono per me.

Oggi amo me stessa.

Mastro Birraio

Non ho bevuto birra fino ai miei 32 anni. Quell’anno mi trovai di nuovo in fase di grandi cambiamenti. Decisi, vista la casa molto grande, di trovare un coinquilino.

Un mio amico cercava una sistemazione per un anno, il tempo che rifacesse casa sua. Non sapevo ancora che sarebbe diventato il mio migliore amico.

Una delle prime cose che fece fu rimproverarmi per l’assenza di luppolo nella mia vita, insieme al fatto che non mangiassi interiora animali, nè cose piccanti.

Mi fece cominciare a bere la Corona, la birra non birra, come la chiamava lui. Qualche tempo dopo, mi iniziò alle blanches, con la Hoegaarden. Ancora dopo le lager, poi la Chouffe.

Ci sono voluti 3 anni, ma alla fine abbiamo fatto un fine settimana nelle abbazie trappiste, in Belgio.

Quello che ha fatto con le birre è un po’la metafora della nostra amicizia, della nostra crescita insieme, come esseri umani, come uomo, come donna, come amici.

Adoro la birra, non tutta, ma adesso la riconosco, mangio piccante, ma non le interiora, veramente troppo per me. Ne ho fatta di strada, sono cresciuta, sono più forte, ma ho imparato anche ad appoggiarmi a qualcuno, con immensa fatica.

Ho capito che a volte, le persone non sono perfette, lui mica lo è, ma possono insegnarti e volerti bene e mettere un tassello di te, che mancava e che da sola non saresti riuscita a trovare.

Le cose non vanno sempre benissimo, ma almeno, oggi, sono orgogliosa del percorso che ho fatto e posso sempre stappare una birra e brindare a ciò che sarà, con chi sarà con me.

Cheers.

Settembre 2019

Agosto malinconico, si gira, sulla porta, come a volermi dire qualcosa.

Mi guarda solamente, lo fa in silenzio.

Ma io in quello sguardo rivivo emozioni, dolcezze, shottini e abbracci.

“Agosto se ne è andato, biondina, ito.”

La voce di Settembre è sempre maliziosa, colta, profonda, ma sempre abbastanza ambigua da renderlo affascinante. Settembre lo sa che non è tra i miei mesi preferiti, ma quest’anno ha un piglio che non ho mai visto in lui. Saranno le bretelle, i piedi scalzi o quell’aria leggera. “Soffierà il mio vento, sarai regina della montagna”. Forse Settembre è sbronzo, penso.

Mi tende la mano, io incerta la afferro e mi porta al mare. Seduta sugli scogli, chiudo gli occhi, ascolto le onde infrangersi, baciata dalla luna, li riapro solo quando mi sento sussurrare da dietro l’orecchio: “Goditi, biondina”, sento nascere un sorriso, mentre un brivido mi arriva alla testa.

Sì, mio caro Settembre, lo farò.

Baci a pioggia

Per molti andare ai matrimoni da soli dove non si conosce nessuno è motivo per declinare l’invito.

Non per me. Per questo fui felice di accettare, quando la mia amica disse che le avrebbe fatto piacere se io fossi stata lì a guardarla, splendida, innamorata, mentre andava all’altare.

Se qualcuno ti invita al suo matrimonio, è evidente che per quella persona sei importante, magari più di quanto realmente pensassi. Non l’avrei mai delusa, nonostante conoscessi solo la sposa.

Andare ad un matrimonio dove non conosci nessuno è una cosa assolutamente divertente, per una come me, che attaccherebbe bottone anche con i muri.

Poco dopo, infatti, chiacchieravo agilmente con questa e con quello.

Da lontano un Uomo Barbuto catturó la mia attenzione, in abito gilet e cappello. Un mix tra un dandy e uno dei membri dei Mumford & Sons, ma, subito dopo, attiró la mia attenzione la sua fidanzata che mi fissava con lo sguardo pazzoide. Le sorrisi. Non ricambió.

La festa andó avanti tra balli cibo e canti, quando uscii per fumare una sigaretta. Iniziai a parlare con un nuvolo di fumatori, anche l’Uomo Barbuto si unì a quel circolo di tabagisti. Via via che i fumatori finivano la loro sigaretta, rientravano. Rimanemmo soli, io e l’Uomo Barbuto. Parlammo in maniera circostanziale di musica, il suo outfit rispettava pienamente il suo stile musicale, lontano dal mio. Guardammo il cielo, minacciava pioggia, feci l’ultimo tiro e rientrai, incrociando la sua fidanzata che, come una iena inferocita attraversava la porta per andare, probabilmente, verso la sua preda da finire.

Fu inevitabile, per me, girarmi e sbirciare fuori dalla sala, dove si stava consumando un ring degno di scommesse, se solo avessi conosciuto qualcuno con cui poterle fare. Mi si avvicinó il fotografo, il quale sembrava uscito da un cartone animato: “hai fatto un bel casino!” Cosa?? Chi? Io? “Si, tu. Lei è gelosa.” No lei è pazza. È diverso.

Ci fu il taglio della torta, l’Uomo Barbuto era solo, ci mise poco ad avvicinarmi. “Fumi?”

“Si…”

“Tieni offro io.”

Uscimmo. Gli dissi che non avevo potuto fare a meno di notare che era rimasto solo. Pare che lei avesse preso l’auto e se ne fosse andata, nella notte, durante un matrimonio. Pare che fossero in crisi da tempo. La sigaretta finì, continuammo a parlare passeggiando. Ridemmo. I suoi occhi erano sereni, nonostante fosse stato appena piantato lì, i suoi occhi erano lieti ed era evidente che fossero così, perchè i suoi occhi stavano guardando me.

Sotto un cielo ottembrino che minacciava pioggia, l’Uomo Barbuto mi appoggió al muro del casolare e mi bació. Mi bació appassionatamente, mi bació con la brezza che si alzava lentamente, le nuvole che si accarezzavano, come lui accarezzava i miei capelli. Cominció a piovere, continuammo a baciarci. Aumentó sempre di più la pioggia su di noi. Eravamo quasi fradici quando si staccó dalle mie labbra per prendermi la mano e portarmi dietro l’angolo di quel casolare.

“Qui ci sono le stanze. La mia stanza. Sali?”

Pensai per un attimo. Pensai alla neo ex. Pensai che era stato il bacio più romantico della mia vita. Pensai alle beghe che ne sarebbero derivate.

Gli sorrisi, scossi il capo, gocciolando pioggia dalla testa.

Mi sorrise. “Capisco. Sei una tosta” disse apprezzandomi. Mi lasció il suo numero.

“Vado a casa” dissi. E feci una corsa sotto la pioggia, ridendo.

Non si videro mai più, ma ogni volta che piove, loro, ancora oggi, guardano fuori dalla finestra, sorridono e abbassano lo sguardo, sapendo che una bella serata di pioggia come quella, non la vivranno mai più.